La solita retorica dell’azienda contro le denunce e la responsabilità scaricata altrove. Ma l’operazione ha comunque creato un’ulteriore attenzione sul caso. La presenza della Rete italiana per il Disarmo all’assemblea di Rheinmetall a Berlino ha rappresentato così un tassello del paziente lavoro di informazione sulla vendita di armi, che provocano stragi negli scenari di guerra. Come quello dello Yemen. Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo, fa il punto in questa intervista dopo l’iniziativa organizzata in Germania.
Qual è il bilancio, è il caso di dire, dopo l’assemblea di Rheinmetall?
Crediamo che tutte le azioni istituzionali debbano essere accompagnate da azioni sui produttori di armi. Perché è vero che sono i governi a dare le autorizzazioni, ma sono le aziende a richiederle. Quindi questo ci permette di uscire fuori dai soliti circuiti di informazione e arrivare maggiormente all’opinione pubblica. Uno degli obiettivi è stato quello di spiegare agli azionisti come i trasferimenti di armi siano problematici anche per le stesse aziende: per la reputazione e per l’impatto sul fatturato. Sono cose che gli investitori devono sapere e approfondire.
Qual è stata la reazione all’assemblea della Rheinmetall dopo le questioni che avete sollevato?
Per adesso su altri ambiti questa opera di sensibilizzazione è molto più efficace. Penso al settore estrattivo o minerario. C’è già un risultato oggettivo ottenuto dal critical shareholding. Sulle aziende di armi è tutto diverso. La loro reazione è inizialmente dubbiosa, perché sono nella fase che definisco “di rimozione”. Per dire: fuori dall’assemblea, alla manifestazione, c’era la presenza di 150 poliziotti con controlli asfissianti. L’unica preoccupazione era quella di garantire che tutto proseguisse senza problemi.
Cosa hanno fatto nello specifico?
Avevano paura di una contestazione, ci hanno controllato più volte, nonostante avessimo pieno diritto a partecipare all’incontro. Infatti noi abbiamo portato elementi e informazioni, anche rispetto allo Yemen. E con l’intervento di Mwatana abbiamo voluto sottolineare la pressione della società civile, sia italiana che yemenita, oltre a quella tedesca.
Oltre i confini italiani com’è la situazione? In Francia dove si parla di una commissione di inchiesta parlamentare.
In realtà situazione in Francia è quella più difficile: c’è molto sciovinismo anche sulla produzione nazionale. Risulta ancora complicato alimentare il dibattito, anche se qualcosa si muove. A metà strada c’è l’Italia: in Parlamento si è discusso, grazie a mozioni e interrogazioni, giornali e tg hanno trattato il tema. Ma in Germania c’è più attenzione: Rheinmetall è sotto la lente di ingrandimento dell’opinione pubblica per i Leopard venduti alla Turchia e usati ad Afrin. Un fatto che ha favorito l’arrivo di profughi siriani. Faccio un esempio: il principale canale televisivo tedesco ci ha intervistato varie volte, realizzando degli speciali sulla Rwm.
Forse anche per quello c’è stata una grande attenzione alla vostra presenza in assemblea…
Certo, avevano paura di azioni clamorose. Ma all’interno dell’assemblea è stato tutto molto tranquillo: l’azienda usa le tecnica del ‘sopire e troncare’. Le persone delle Ong erano attente a quello che si diceva ma il resto della platea ha vissuto la giornata come una ‘gita’: spesso i partecipanti sono ex dipendenti o manager.
Ma come si sono difesi dalle vostre rimostranze?
Loro usano la solita retorica: dicono che con Rwm non c’entrano niente e che decide il management italiano. Ma ricordo che Rheinmetall possiede al 100% di Rwm, avendo quindi responsabilità gestionale e politica. Invece hanno detto che non sono responsabili nemmeno di come vengono utilizzate le bombe. Il loro obiettivo è quello di non farle scoppiare in mano ai soldati che le usano. In questo caso, insomma, niente di nuovo: hanno anche confermato che manterranno la sede in Italia e andranno avanti con gli investimenti.