Valutare, riflettere, ragionare. Mentre la Turchia continua gli attacchi contro i curdi, provocando centinaia di vittime e costringendo alla fuga migliaia di civili, la politica italiana prende tempo sullo stop alla vendita delle armi ad Ankara. Bisogna invece fare presto. Prestissimo. Anche perché non si tratta di una decisione politica complessa: è solo l’applicazione di una legge dello Stato (la 185 del 1990), una motivazione più che valida, che non necessita di grandi ragionamenti. L’imponente giro di affari (come riporta la grafica in copertina) non può rappresentare una giustificazione.
Peraltro, pur mettendola sul piano geopolitico, non è affatto il tempo della cautela: Recep Tayyip Erdoğan ha avviato la sua deliberata aggressione senza alcun timore reverenziale verso le conseguenze. Appena gli Stati Uniti di Donald Trump hanno abbandonato i curdi, il presidente turco ha ordinato l’inizio delle operazioni militari. Del resto l’obiettivo del leader turco è proprio quello di giocare sul tempo, un anticipo per spiazzare la comunità internazionale e assumere il controllo di quell’area, costringendo i suoi nemici curdi a rifugiarsi altrove. L’Italia non può e non deve restare spettatrice passiva di questa strategia, vittima di un eccesso di prudenza.
Esempi in Europa
Norvegia e Finlandia hanno fatto da apripista nel dire “Basta armi alla Turchia”: subito dopo si sono accodati Paesi Bassi, Svezia, Danimarca, facendo arrivare sul tema una netta apertura dalla Germania e dalla Francia. Il governo italiano, attraverso il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, sembra ora intenzionato a chiedere a tutta l’Unione europea lo stop al rifornimento di armamenti ai turchi. È un’iniziativa pregevole, perché avrebbe un impatto maggiore, anche dal punto di vista diplomatico. Ma prima di arrivare all’impegno collettivo dell’Ue, si può dare il buon esempio. Anzi, si può seguire il buon esempio dato da altri Paesi: questa volta fare da soli non è un male.