Meno armi ai dittatori, la buona pratica per evitare fughe da Paesi di origine

Meno armi ai dittatori, la buona pratica per evitare fughe da Paesi di origine

L’immigrazione come un’ossessione. In Italia c’è stata la drammatica crisi dell’Aquarius, con il ministro dell’Interno Salvini disposto a tutto pur di dichiarare di aver evitato uno sbarco. Ma anche in Germania la coalizione di governo vive qualche tensione tra quelli che pure sarebbero gli alleati più solidi, Cdu e Csu. La Francia, poi, non si è propriamente contraddistinta per accoglienza, come ricordano i fatti di Bardonecchia e Ventimiglia. Paesi europei che hanno in comune questo, ma che condividono un altro problema: armano i governi che alimentano la fuga dei loro cittadini.

Il concetto, espresso dal corposo studio condotto da Mark Akkerman, è semplice:

Le nazioni dell’Europa continuano a vendere armi a questi Paesi sebbene alimentino così ulteriori conflitti, violenze e repressione, contribuendo a creare più rifugiati. Il valore totale delle licenze rilasciate dagli stati membri dell’UE per la esportazione delle armi a quei 35 Paesi nel decennio 2007-2016 è superiore a 122 miliardi di euro. Il 20% di questi Paesi (7) è sotto embargo dell’UE e/o delle Nazioni Unite, però molti di loro continuano di ricevere armi da alcuni stati membri dell’UE così come il sostegno dall’UE alle loro forze armate e di sicurezza per gli sforzi di lotta all’immigrazione.

Insomma, le armi arrivano anche a Paesi che dovrebbero essere sotto embargo. E che quindi, non sono un esempio del rispetto dei diritti umani.

Pecunia non olet

Il mese scorso ne avevamo già parlato: il dossier ‘Espandendo la Fortezza’ svela come l’ossessione di blindare i confini sia un’operazione dal peggior effetto boomerang: danno legittimazione, e soprattutto armi e strumenti di controlli, a presidenti autoritari (quando non sono veri dittatori), ottenendo il risultato opposto. Quello di spingere i cittadini, oppressi e affamati, alla fuga. Verso qualsiasi destinazione e a qualsiasi rischio.

Ecco un’altra parte significativa della ricerca, che ci sposta su un altro .

I finanziamenti dell’UE e le donazioni di attrezzature militari e di sicurezza, così come le pressioni esercitate sui Paesi terzi per rafforzare le loro capacità di sicurezza alle frontiere hanno rafforzato il mercato della sicurezza delle frontiere in Africa. L’organizzazione di lobby AeroSpace e Defense Industries Association of Europe (ASD) ha iniziato a focalizzarsi sull’esternalizzazione dei confini dell’UE. Aziende di grandi dimensioni come Airbus e Thales hanno anche messo gli occhi sul crescente mercato africano e del Medio Oriente.

Dietro la volontà di sicurezza a tutti i costi, si cela – come si poteva immaginare – un manovratore immancabile: l’interesse economico. Grosse aziende italiane, francesi e tedeschi, infatti, occupando una fetta di mercato significativa.

Cambiare modello, no?

Dunque, i rifornimenti di armi e di sofisticati strumenti di controllo, a governi autoritari sono doppiamente deleteri: minano le fondamenta del rispetto dei diritti umani e spingono inevitabilmente alla fuga. Gli unici beneficiari sono i presidenti di quei Paesi e le aziende europee che passano all’incasso. Akkermann, esaminando vari casi dalla Libia al Sudan, mette completa così il ragionamento:

Tutti questi casi studiati rivelano che la politica di interazione dell’UE con le regione vicine è quasi diventata una ossessione per il controllo dell’immigrazione, a prescindere dai costi per il Paese o per gli sfollati forzati. E’ un concetto limitato e autodistruttivo di sicurezza perché non va alla radice dei problemi che portano le persone a migrare: conflitto, violenza, sottosviluppo economico e il fallimento degli stati a gestirli in modo equo.

Allora perché non cambiare modello?

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