La storia di quello che viene definito “l’omicidio di Vasto” è di quelle che non vorresti raccontare mai. Proprio ieri è tornata sulle cronache dei media perché è stata pronunciata la sentenza d’appello. Ma forse serve raccontarla, partendo dall’inizio e ripercorrendo le stesse cronache, perché insegni qualcosa a tutti noi. Il 1 luglio 2016 Roberta Smargiassi alla guida del suo scooter sta attraversando un incrocio a Vasto quando viene investita da Italo, che passa con il rosso. Roberta cade, finisce contro il semaforo e, purtroppo, perde la vita. Roberta è sposata con Fabio, distrutto dal dolore. La magistratura si attiva, Italo D’Elisa, che non era sotto l’effetto di alcool o sostanze stupefacenti, è indagato per omicidio stradale, rischia una seria pena detentiva, per quello che, tuttavia, rimane un omicidio colposo. Le indagini procedono velocemente, ma nello stesso tempo prende forma una dinamica perversa in cui due “fazioni”, i familiari e amici di Roberta e quelli di Italo, si fronteggiano sui social media. È sui social media che vengono riportati e commentati i comportamenti di Italo e le dichiarazioni dei rispettivi avvocati. È sui social media che sale la tensione, che si fa il processo prima del processo.
L’acquisto della pistola
In questo intervallo di tempo, pare, Fabio, che ogni giorno va al cimitero a trovare la moglie, acquista una pistola, calibro 9, per uso sportivo e poco dopo dona tutti i suoi beni ai genitori. Ora la foto del suo profilo Facebook è quella della moglie, con la scritta “Giustizia per Roberta”, mentre l’immagine di copertina quella del film “Il gladiatore”, con un sottotesto non scritto ma evidente, “avrò la mia vendetta, in questa vita o nell’altra”. Poi, il 1 febbraio del 2017, la seconda tragedia. Fabio affronta Italo, in strada, e gli spara tre volte, con la pistola acquistata per uso sportivo, uccidendolo sul colpo. Poi va al cimitero e lascia la pistola sulla tomba di Roberta. Il processo è breve e Fabio viene condannato a 30 anni di reclusione perché viene riconosciuta la premeditazione, mentre la sentenza d’appello, appena pronunziata, la nega, riducendo la pena a 20 anni.
La vendetta con il reato di omicidio stradale
Non è questa la sede per valutare le sentenze, a maggior ragione senza averne letto le motivazioni. Sarà probabilmente la Corte di Cassazione a dare una risposta definitiva all’esame dei fatti e alle loro conseguenze penali. Quello che interessa sono invece le premesse e le conseguenze sociali di questi eventi così difficili da accettare. Questi eventi che incrociano tre argomenti di cui ci siamo occupati tanto, anche dal punto di vista giuridico. La normativa sull’omicidio stradale, uno dei fiori all’occhiello del governo Renzi, le campagne di odio sui social e l’uso delle armi. In una sola tragica vicenda si sommano tante carenze. La normativa sull’omicidio stradale, che abbiamo tanto criticato, si dimostra inutile, così come legittime e fondate appaiono le critiche. È una normativa che tratta fatti colposi, sia l’aver provocato lesioni alla persona che la morte in un incidente stradale, sposando l’ottica della vendetta e non della giustizia.
Ma come può ritenersi soddisfatto chi perde un proprio caro con qualche mese o anno in più di reclusione per il responsabile, che difficilmente sarà poi scontato fra riduzioni di rito e benefici di legge, se la sua aspettativa è la vendetta? Non lo sarà mai, e questa vicenda lo conferma. Nonostante indagini rapide, nonostante si fosse vicini al processo, nonostante la magistratura stesse lavorando bene, la vendetta, al di là della premeditazione o meno, rimane un fatto personale. E questa normativa da un lato, in modo implicito, la legittima eticamente, e dall’altro non riesce a soddisfare l’esigenza che ha appena legittimato. Quando invece si dovrebbe agire in altro modo, soprattutto se l’incidente viene provocato per un errore di guida non aggravato dal volontario uso di sostanze alcoliche o stupefacenti, predisponendo percorsi di sostegno ai familiari delle vittime, ma non uscendo dai limiti del diritto penale, se solo si ricorda che questa normativa prevede in alcuni casi ipotesi di reati colposi trattate in modo più afflittivo dei medesimi reati dolosi.
Haters in azione
Poi c’è l’odio in rete, che spesso non si traduce in fatti concreti, e questo perché, di solito, viene praticato in forma anonima e su persone con le quali in realtà non si ha alcun contatto. Ma se per disgrazia capita che le persone si conoscano, e che i familiari leggano o siano coinvolti, che dichiarazioni di avvocati (pare che una delle scintille sia stata appunto una dichiarazione della difesa di Italo sul fatto che il casco di Roberta non fosse allacciato correttamente) vengano amplificate, discusse, commentate in un processo mediatico e popolare, è chiaro come sia facile poi arrivare a sentirsi in qualche modo sostenuti nel farsi giustizia da soli.
Senza l’arma, solo una tragedia e non tre
Infine, le armi. Come è possibile che una persona nelle condizioni di Fabio abbia la disponibilità di una pistola, anche se per uso sportivo, come è possibile che possa acquistarla in quelle condizioni? Perché farsi giustizia da soli è difficile senza una pistola. Perché con una pistola basta premere il grilletto, e non si torna più indietro, e vale anche per il suicidio. Perché basterebbe fare controlli specifici sia al momento della vendita che dopo, periodicamente, per valutare le condizioni psicofisiche di chi acquista l’arma. Perché basterebbe obbligare chi utilizza armi per attività sportive a detenerle nei poligoni senza poterle portare a casa. Perché senza la pistola avremmo avuto solo una tragedia, invece che tre.