Un taglio, nemmeno troppo drastico nelle percentuali, può bastare a cambiare l’aria che respiriamo. O più precisamente a contrastare gli sconvolgimenti climatici, limitando anche i flussi migratori previsti nei prossimi decenni. Si tratta di un intervento sulla spesa militare globale: una riduzione del 10% consentirebbe un importante investimento sull’ambiente. Con effetti benefici a cascata.
Il sito della campagna, demilitarize.org, ha evidenziato i dati essenziali, rivolgendo il proprio appello ai Paesi e a tutte le alleanze militari, compresa la Nato.
Le spese militari nel 2016 sono arrivate ad un totale di 1.680 miliardi di dollari. Molti governi stanno pianificando aumenti nei bilanci militari in contemporanea a tagli per la sanità, l’istruzione e la cooperazione allo sviluppo. Le notizie sul potenziamento del budget militare proposto negli Stati Uniti sono allarmanti: il Congresso ha recentemente approvato un aumento di 165 miliardi di dollari nelle spese militari nei prossimi due anni.
Meno armi? Fermano anche i migranti
L’incremento della spesa militare ha provocato una sorta di effetto domino: sta infatti riguardando molti altri Paesi, Italia compresa. Partendo dalla stima relativa al 2016, quindi, sarebbe sufficiente (almeno per iniziare) la destinazione di 168 miliardi di dollari per il contrasto del cambiamento climatico, che tra i tanti problemi acuise a sua volta il drammatico fenomeno della migrazione per la desertificazione: i cosiddetti migranti climatici. Un rapporto della Banca mondiale ha spiegato che entro il 2050 potrebbero essere 143 milioni le persone in fuga dai territori più colpiti da fenomeni atmosferici estremi. Le aree considerate più a rischio sono l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina. Con la conseguenza di portare un immenso numero di persone alle porte dell’Europa, ma anche degli Stati Uniti e della Russia.
Il direttore della divisione ambientale della Banca Mondiale, John Roome, ha evidenziato che i cambiamenti climatici “incidono già oggi sulle migrazioni di esseri umani e il fenomeno potrebbe intensificarsi in futuro. Ma, se riuscissimo a limitare le emissioni di gas a effetto serra e incoraggiare uno sviluppo sostenibile, potremmo immaginare di limitare il numero di migranti climatici a 40 milioni nelle tre regioni”. Insomma, l’investimento contro il global warming è una buona pratica – usando il lessico tanto caro a qualcuno – per “aiutarli a casa loro”. Ma in realtà è un modo per aiutarci tutti.
La campagna sul taglio alle spese in armi
La Global Campaign on Military Spending (GCOMS), nata nel dicembre 2014, è iniziata quest’anno il 14 aprile e andrà avanti fino al 3 maggio in tante modalità dalla Nuova Zelanda all’Italia, dove la sfida è stata raccolta in particolare dalla Rete per il Disarmo. Negli Stati Uniti, però, la mobilitazione sarà particorlamente massiccia con iniziative in decine di città. A fare da propulsore, come sempre, è l’International Peace Bureau. Per favorire l’adesione è stata ideata la campagna social con un selfie per chiedere meno spese per le armi e più risorse alla salvaguardia del pianeta.
Lo spostamento dei fondi si pone un profondo obiettivo culturale: gli investimenti passerebbero dagli armamenti, quindi da strumenti di distruzione, ai bisogni umani, ossia agli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Non più bombardieri, carri e armati e missili, fautori di stragi e portatori di morte, ma attenzione alla salute, sia quella delle singole persone che nel complesso a quella del pianeta. E che, del resto, sono strettamente legate.